Vigevano
near Vigevano, Lombardia (Italia)
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Parlava lagrimando il nigromante,
ed era per narrar il gran conquasso,
che Carlo a Chiaramonte il giorno avante
diede, poscia ch’intese quel fracasso
dal fier Milone fatto in un istante,
che in una notte mandò quasi al basso
tutta la casa di Maganza, e Berta
rapita aver tenea per cosa certa;
31
quando Raimondo (ché Raimondo detto
era quel duca o conte calabrese)
lascivamente Berta, nel cospetto
d’uomini e donne, stretta in braccio prese,
volendo ch’abbia il suo pensier effetto,
come uom villano, perfido e scortese.
Berta che dorme, destasi gridando:
Milon che l’ode, tratto ha fora il brando;
corre a veder la causa di tal voce;
ma risospinto fu da trenta indrieto:
pensate s’ira e sdegno il cuor gli coce,
vedendo farsi un atto sí indiscreto:
ma l’arroganza le piú volte nòce.
Salta Milon in mezzo di quel ceto
e vi comincia a dimenarsi intorno,
quantunque fusse giá sparito il giorno.
33
A cui la testa, a cui la spalla fende,
a cui lo braccio, a cui la gamba tronca:
Berta contra Raimondo si difende,
ché a caso in man venuta gli è una ronca;
ma quel rubaldo in un battello scende,
dietro le poppe, simile a una conca;
quattro famigli allor prendono in fretta
la donna e giú la mandan in barchetta.
34
Assai contrasta loro, e pur si vede
al fin Berta d’un ladro esser prigione.
Chiama piangendo su dal ciel mercede,
poiché l’aiuto è vano di Milone;
lo qual mentre cervelli rompe e fiede,
giá presso al fin de l’aspra occisione,
grossa nave per libeccio vola,
ma la piccina drieto resta sola,
35
perché tagliò la fune il fier Raimondo
di quel schifetto, allor che l’ebbe drento;
e mancò poco non andasse al fondo
la picciol barca, giá ingrossando il vento.
Or qui scriver non vogliovi, secondo
Turpin, diffusamente qual evento
fu di Milone o di quel mago Atlante,
che allor allora sparve in un istante;
36
né di Milon, il qual dopo la morte
sanguinolenta di que’ tapinelli,
ebbe fortuna tal, che le ritorte,
arbore, vela, remi, arme, vaselli,
lo stesso legno al fin andò per sorte
del mar in preda, e con i soi fardelli
li mercadanti al fondo si trovaro,
né lor scampò la copia del dinaro.
37
Pur animosamente il cavalliero,
trattosi l’arme, nudo come nacque,
buttossi di fortuna ne l’impero,
di qua di lá sbalzato per su l’acque.
Al fin giunse in Italia, ma, leggiero
di forze e panni, su la rena giacque;
poscia, levato da non so qual fata,
seco sen stette e l’ebbe ingravidata.
38
Di costei nacque il principe Agolaccio,
come ’l dottore in la sua Deca scrive;
ma ritorniamo a Berta che, in impaccio
di quel fellone, non sa come ’l schive:
egli giá se l’avea recata in braccio
per adempir le voglie sue lascive;
la donna che schermirsi piú non puote,
d’un suo coltello sotto lo percuote.
39
Ché, mentre finge aprir le gambe a quello
ed al giostrar corcarsi agiatamente,
cacciògli ne le viscere il coltello,
raddoppiando de’ colpi virilmente.
Quel misero ferirla volse anch’ello
d’un suo pugnale, ma il dolor repente
di morte l’impedisce; e Berta in mare
spinselo fora, e s’ebbe a conservare.
40
Or sola in quel vasello va sbalzando
la pudica donzella su per l'onde.
— O sommo Dio — parlava lacrimando, —
porgimi la tua man, che non s’affonde
l'infermo legno! Non che il mio nefando
viver né le mie colpe lorde immonde
mertin pietá; ma quella creatura
c’ho in ventre, o Padre Eterno, rassicura!
41
Da te ricorro, non a Piero o Andrea,
ché l’altrui mezzo non mi fa mistero:
ben tengo a mente che la Cananea
non supplicò né a Giacomo né a Piero.
A te, somma bontá, sol si credea;
cosí io sol di te sol, non d’altro, spero.
Tu sai quel ch’èmmi sano ovver noioso:
fa’ tu, Signor, ch’altri pregar non oso!
42
Né insieme voglio errar col volgo sciocco,
di soperstizia colmo e di mattezza,
che fa soi voti ad un Gotardo e Rocco,
e piú di te non so qual bove apprezza,
mercé ch’un fraticello, al dio Molocco
sacrificante spesso, con destrezza
fa che tua madre su nel ciel regina
gli copre il sacrificio di rapina.
43
Per ciò che di pietá sotto la scorza
fassi grande vendemmia de dinari;
e co l’altare di Maria si ammorza
l’empia ingordigia de’ prelati avari.
Ed anco la lor legge mi urta e sforza
ch’ogni anno ne l'orecchie altrui dischiari
le mende mie, ch’io son giovin e bella;
ed era per narrar il gran conquasso,
che Carlo a Chiaramonte il giorno avante
diede, poscia ch’intese quel fracasso
dal fier Milone fatto in un istante,
che in una notte mandò quasi al basso
tutta la casa di Maganza, e Berta
rapita aver tenea per cosa certa;
31
quando Raimondo (ché Raimondo detto
era quel duca o conte calabrese)
lascivamente Berta, nel cospetto
d’uomini e donne, stretta in braccio prese,
volendo ch’abbia il suo pensier effetto,
come uom villano, perfido e scortese.
Berta che dorme, destasi gridando:
Milon che l’ode, tratto ha fora il brando;
corre a veder la causa di tal voce;
ma risospinto fu da trenta indrieto:
pensate s’ira e sdegno il cuor gli coce,
vedendo farsi un atto sí indiscreto:
ma l’arroganza le piú volte nòce.
Salta Milon in mezzo di quel ceto
e vi comincia a dimenarsi intorno,
quantunque fusse giá sparito il giorno.
33
A cui la testa, a cui la spalla fende,
a cui lo braccio, a cui la gamba tronca:
Berta contra Raimondo si difende,
ché a caso in man venuta gli è una ronca;
ma quel rubaldo in un battello scende,
dietro le poppe, simile a una conca;
quattro famigli allor prendono in fretta
la donna e giú la mandan in barchetta.
34
Assai contrasta loro, e pur si vede
al fin Berta d’un ladro esser prigione.
Chiama piangendo su dal ciel mercede,
poiché l’aiuto è vano di Milone;
lo qual mentre cervelli rompe e fiede,
giá presso al fin de l’aspra occisione,
grossa nave per libeccio vola,
ma la piccina drieto resta sola,
35
perché tagliò la fune il fier Raimondo
di quel schifetto, allor che l’ebbe drento;
e mancò poco non andasse al fondo
la picciol barca, giá ingrossando il vento.
Or qui scriver non vogliovi, secondo
Turpin, diffusamente qual evento
fu di Milone o di quel mago Atlante,
che allor allora sparve in un istante;
36
né di Milon, il qual dopo la morte
sanguinolenta di que’ tapinelli,
ebbe fortuna tal, che le ritorte,
arbore, vela, remi, arme, vaselli,
lo stesso legno al fin andò per sorte
del mar in preda, e con i soi fardelli
li mercadanti al fondo si trovaro,
né lor scampò la copia del dinaro.
37
Pur animosamente il cavalliero,
trattosi l’arme, nudo come nacque,
buttossi di fortuna ne l’impero,
di qua di lá sbalzato per su l’acque.
Al fin giunse in Italia, ma, leggiero
di forze e panni, su la rena giacque;
poscia, levato da non so qual fata,
seco sen stette e l’ebbe ingravidata.
38
Di costei nacque il principe Agolaccio,
come ’l dottore in la sua Deca scrive;
ma ritorniamo a Berta che, in impaccio
di quel fellone, non sa come ’l schive:
egli giá se l’avea recata in braccio
per adempir le voglie sue lascive;
la donna che schermirsi piú non puote,
d’un suo coltello sotto lo percuote.
39
Ché, mentre finge aprir le gambe a quello
ed al giostrar corcarsi agiatamente,
cacciògli ne le viscere il coltello,
raddoppiando de’ colpi virilmente.
Quel misero ferirla volse anch’ello
d’un suo pugnale, ma il dolor repente
di morte l’impedisce; e Berta in mare
spinselo fora, e s’ebbe a conservare.
40
Or sola in quel vasello va sbalzando
la pudica donzella su per l'onde.
— O sommo Dio — parlava lacrimando, —
porgimi la tua man, che non s’affonde
l'infermo legno! Non che il mio nefando
viver né le mie colpe lorde immonde
mertin pietá; ma quella creatura
c’ho in ventre, o Padre Eterno, rassicura!
41
Da te ricorro, non a Piero o Andrea,
ché l’altrui mezzo non mi fa mistero:
ben tengo a mente che la Cananea
non supplicò né a Giacomo né a Piero.
A te, somma bontá, sol si credea;
cosí io sol di te sol, non d’altro, spero.
Tu sai quel ch’èmmi sano ovver noioso:
fa’ tu, Signor, ch’altri pregar non oso!
42
Né insieme voglio errar col volgo sciocco,
di soperstizia colmo e di mattezza,
che fa soi voti ad un Gotardo e Rocco,
e piú di te non so qual bove apprezza,
mercé ch’un fraticello, al dio Molocco
sacrificante spesso, con destrezza
fa che tua madre su nel ciel regina
gli copre il sacrificio di rapina.
43
Per ciò che di pietá sotto la scorza
fassi grande vendemmia de dinari;
e co l’altare di Maria si ammorza
l’empia ingordigia de’ prelati avari.
Ed anco la lor legge mi urta e sforza
ch’ogni anno ne l'orecchie altrui dischiari
le mende mie, ch’io son giovin e bella;
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