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Monte Serrone e il borgo abbandonato di Sperone e la sua torre

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Author

Trail stats

Distance
7.14 mi
Elevation gain
2,119 ft
Technical difficulty
Moderate
Elevation loss
2,221 ft
Max elevation
4,205 ft
TrailRank 
32
Min elevation
4,205 ft
Trail type
One Way
Time
5 hours 10 minutes
Coordinates
4530
Uploaded
June 5, 2022
Recorded
June 2022
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near Gioia dei Marsi, Abruzzo (Italia)

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Itinerary description

Ho dato questo nome a un antico e oscuro luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago di Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e la montagna. In seguito ho risaputo che il medesimo nome, in alcuni casi con piccole varianti, apparteneva già ad altri abitati dell’Italia meridionale, e, fatto più grave, ho appurato che gli stessi strani avvenimenti in questo libro con fedeltà raccontati, sono accaduti in più luoghi, seppure non nella stessa epoca e sequenza. A me è sembrato però che queste non fossero ragioni valevoli perché la verità venisse sottaciuta. Anche certi nomi di persone, come Maria Francesco Giovanni Lucia Antonio e tanti altri, sono assai frequenti; e sono comuni a ognuno i fatti veramente importanti della vita: il nascere, l’amare, il soffrire, il morire; ma non per questo gli uomini si stancano di raccontarseli. Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici. A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un’apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell’interno, per lo più senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione una diecina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato, e che è l’unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite morti amori odii invidie lotte disperazioni. Altro su Fontamara non vi sarebbe da dire, se non fossero accaduti gli strani fatti che sto per raccontare. Ho vissuto in quella contrada i primi vent’anni della mia vita e altro non saprei dirvi. Per vent’anni il solito cielo, circoscritto dall’anfiteatro delle montagne che serrano il Feudo come una barriera senza uscita; per vent’anni la solita terra, le solite piogge, il solito vento, la solita neve, le solite feste, i soliti cibi, le solite angustie, le solite pene, la solita miseria: la miseria ricevuta dai padri, che l’avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito proprio 7 a niente. Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve. La vita degli uomini, delle bestie e della terra sembrava così racchiusa in un cerchio immobile saldato dalla chiusa morsa delle montagne e dalle vicende del tempo. Saldato in un cerchio naturale, immutabile, come in una specie di ergastolo. Prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l’insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo stesso ritornello. Sempre. Gli anni passavano, gli anni si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuovo da capo. Ogni anno come l’anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente. Ogni generazione come la generazione precedente. Nessuno a Fontamara ha mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare.

Igazio Silone, Fontamara

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